Lettera aperta al ministro Meloni

22 dicembre 2010

Gentilissimo ministro Meloni,

Le scrivo per raccontare di alcune parole e del comportamento degli studenti in protesta, emblematici della cultura che aleggia tra le cosiddette nuove generazioni.

Appare ovvio che rivolga a Lei questo sfogo non soltanto per il suo incarico istituzionale ma soprattutto per ragioni anagrafiche, considerando che Lei rappresenti il giusto compromesso interlocutorio tra le formae mentis attualmente in conflitto.

Confesso che da qualche mattino il mio occhio sugli studenti è mutato; li osservo e non posso dimenticare che la giornata in cui ci furono le violente manifestazioni (14 dicembre 2010) i miei studenti disertarono le lezioni; cerco di immaginarli, con casco e viso coperto, armati di spranghe, lanciare bombe carta e incendiarie, attaccare le forze dell’ordine. Sono sbigottito, il mio sguardo nei loro confronti è oramai condizionato. Sono questi i miei ragazzi, molti neomaggiorenni, gli stessi che accettavano qualunque rimprovero e correzione, disposti a subire la mia durezza disciplinaristica e disciplinare? E che adesso mettono in crisi la minima moralia della civile convivenza, da me stesso ribadita da anni?

Dall’iniziale sbigottimento adesso mi sento tradito. I miei studenti sono dei mentitori. Hanno finto fino a oggi di offrirmi il loro rispetto, assecondandomi; hanno mentito mostrando interesse per la mia persona, prim’anche per le cose che avrei avuto da insegnare, entusiasmo simulato per miei consigli; hanno mistificato il proprio essere integrati e impegnati nel sociale, dissimulando le proprie idee democratiche. Sono vigliacchi, ha ragione chi glielo ha detto prima di me. Vorrebbero scardinare le istituzioni senza utilizzare le normali procedure dell’attuale democrazia –appartenenza partitica paziente, partecipazione politica fidelizzata, cooptazione premiante-; vorrebbero usare la forza per sovvertire le regole del gioco poiché non accettano le gerarchie sociali costruite con la meritocrazia, opzione inconcussa di questa stagione politica della seconda repubblica.

Sì, i miei studenti sono mentitori e vigliacchi.

Li ho ascoltati mentre ordinatamente alzavano la mano per intervenire.

“Professore –diceva Antonio- nella nostra Italia la mobilità sociale è tra le più basse dell’occidente, soltanto i giovani disposti a prostituirsi possono nutrire ambizioni carrieristiche ed economiche: noi non ci sentiamo rappresentati perché non accettiamo più modelli che blaterano di democrazia ma non ci ascoltano, rivendicano coerenza ma cambiano idee al prezzo di un mutuo, esortano alla razionalità ma gridano e si offendono reciprocamente in televisione; non crediamo alle promesse di chi predica l’onestà ma nasconde le proprie condanne dietro il mandato parlamentare, esalta il sacrificio circondato dal lusso, idealizza la moralità ma è riscoperto colluso; diciamo basta a chi invita i giovani al sacrificio e alla gavetta mentre raccomanda i propri figli senza meriti nel consiglio regionale lombardo piuttosto che al ministero della cultura.”

“Professore –era Stefania a parlare- questi nostri moti di piazza sono diversi da quelli che ci hanno preceduto, non siamo la pantera oppure l’onda che, malgrado rivolgessero la protesta contro il governo, accettavano l’istituzione e riconoscevano il valore degli adulti e dei capi; quei movimenti nacquero dal presupposto che il dissenso degli studenti dovesse rientrare nel gioco delle parti, una sana dialettica, protesa al meglio per il sistema, che le componenti sociali svolgevano per armonizzare la nazione. Oggi noi non riconosciamo lo Stato, poiché non crediamo che operi per il bene comune ma soltanto per l’interesse di pochi; anzi, siamo convinti che gli esponenti politici impegnati a salvaguardare l’attuale sistema siano disposti a sacrificare una parte dei soggetti sociali, pur di conservare l’equilibrio che permetta ai pochi di reiterare ricchezze e potere.”

“Noi non riconosciamo più lo Stato perché questo Stato sta negando se stesso, ci sta tradendo; si tenga presente che la nostra protesta non intende rifondare le istituzioni, è una forma di lotta per ricondurre lo Stato verso la direzione impressa dal dettato costituzionale. Noi giovani siamo liberali ed egualitari, schizofrenicamente costretti a usare la violenza per ribadire la legalità, impegnati nella nostra azione che si propone di riportare al centro la cultura giuridica e costituzionale repubblicana del nostro Paese: paradossalmente la nostra rivoluzione consiste nel rivendicare la tradizione. Professore, noi siamo patrioti, disposti anche al sacrificio personale: siamo Pietro Micca che lancia stampelle!”

La classe per un attimo sorrideva al sarcasmo di Giovanni, capelli lunghi e orecchie a sventola, che citava quell’onorevole agopuntore.

Sì, questi miei studenti non li riconosco più. Ho fallito io stesso, insegnando vanamente che la democrazia consiste nel parlare ma non nell’agire libero, soprattutto se indiscriminato e privo di valori; io che ho insegnato loro che la forza di una nazione sta nella cultura che riesce a innovare, che non esiste nazione ricca che non sia anche colta e riferimento planetario. E ho detto loro che il lavoro disconosciuto di ogni studioso accresce l’intelletto sociale; e che il sacrificio, lo sforzo e il merito saranno premiati; e che ogni soggetto colto e impegnato arricchisce lo Stato, anche in termini economici, e soprattutto lo rende sicuro. E che su di loro, future classi dirigenti, convergono gli sforzi del Paese. Invece, vedo di fronte a me una generazione di donne e uomini magari colti, ma che vivono insicurezza e producono antistato.

Bisogna fermarli con un’azione preventiva: da più parti è stata evocata la non concessione dei permessi per le loro manifestazioni pseudo-pacifiche, oppure il cosiddetto daspo per i più scalmanati, fino alla galera per i facinorosi. Tali provvedimenti sono rivendicati con forza e saggezza poiché suggeriti da uomini che purtroppo usarono la violenza nella loro gioventù, ma che adesso se ne sono affrancati: sanno cosa comporta usare la forza bruta, si rendono conto che occorre fermarla prima del suo proliferare.

Mentre suonava la campana di fine lezione, ho guardato ancora quei giovani che mi illudevo di conoscere: attendevano da me un gesto consenziente che non ho voluto dare. Quanto tempo sprecato cercando di insegnare loro il rispetto, il senso della giustizia, l’utilizzo della logica e del senso critico, il valore supremo dell’autodeterminazione. Mi sono taciuto ma avrei voluto gridare: andate a studiare!

Sono venuti ad augurarmi di trascorrere un buon Natale, con occhi che si poggiavano su me, speranzosi: io non ci casco, ho compreso la falsità; adesso ho capito, sono pazzi: ecco la luce potenzialmente assassina. E confesso che ho anche un po’ paura.

Gentile ministro Meloni, stamane sul Corsera ho letto la Sua intervista, a proposito del ministero del presente e della voglia di confronto coi giovani.

Nicola Tenerelli
Ordinario Storia e Filosofia,
Liceo Cartesio, Triggiano (BA)
www.nicolatenerelli.it
nicolatenerelli@filosofiadellarelazione.it